venerdì 23 dicembre 2016

Un racconto di Natale

C'era un tempo in cui il Natale lo aspettavo davvero, almeno da metà novembre.
Iniziavo scrivendo la letterina per Babbo Natale, con cura la imbustavo e cominciavo a sperare.
I regali? Non erano un problema. Quelli da ricevere li avrebbe portati lui, gli altri si confezionavano a scuola in una sorta di tempo sospeso, in cui le lezioni si svolgevano quasi senza che me ne accorgessi, travestite, com'erano, da preparativi per le Feste.

Dopo, è venuto il tempo in cui aspettavo il Capodanno. Il Natale, in quel periodo, sembrava un'inutile perdita di tempo con i parenti tra l'appello invernale ed il festeggiamento con gli amici.

E' arrivato, poi - ed è quello presente - il tempo...in cui non c'era più tempo: nè per l'attesa del Natale (scoprire all'alba del 23 dicembre, che sì, caspita! anche quest'anno ci siamo!), nè per i regali (un'impresa acquistarli, figuriamoci confezionarli!), per organizzare le cene con gli amici (al suono del ritornello "maquindiquandocivediamopergliauguri?"), per godersi la festa (no, grazie, non mi fermo a cena per finire la frutta secca e continuare a giocare a carte, domani lavoro...).

Sarei, però, ingiusta a dire che questo tempo sia il peggiore di tutti, perchè insieme alla frenesia è arrivata una certa consapevolezza. Di quale grande valore abbia il tempo, anzitutto. Di quanto esso assuma dimensioni diverse, delle quali ci accorgiamo solo una volta che è trascorso, trasformandosi da tempo in spazio nella nostra memoria: l'istante del sorriso di chi incontriamo in occasione del Natale dopo tanto tempo (amico, parente o semplice conoscente), infatti, occuperà nei nostri ricordi un posto più ampio di quello tenuto dalle ore di coda alla cassa dei negozi, in auto per la città impazzita...
Non solo.
Non saprei dire se sia o meno un regalo di coda da parte di Babbo Natale (devo ammettere che ultimamente non scrivo più letterine colorate, ma raccomandate, che però a lui non invio: non mi sembra carino nè educato...). Dopo moltissimo tempo, ho la voglia e l'entusiasmo di progetti nuovi. Nuove idee per la mia quotidianità e non solo, il piacere di pensare e di pensarmi in modo anche diverso da come ho fatto sinora.
Non sarà molto, direte voi. Può darsi. Ma la sensazione è davvero bella, tanto che se chiudo gli occhi mi sembra di essere, ancora una volta, quella bambina in trepidante attesa, piena di speranza in un tempo sospeso e carico di novità.

Auguro a me e a voi di vivere questi giorni di Natale insieme al bambino che eravamo, parlargli, chiedergli se è contento di quello che siamo diventati ed ascoltare i suoi consigli...quelli, sì, un regalo davvero prezioso.

Buon Natale, buon viaggio e ad maiora!

Torino, 23/12/16

Vero Ve






giovedì 24 novembre 2016

Where are we runnin'? (ovvero, Di Lenny Kravitz e del Referendum costituzionale)

Accade spesso che la corsa sia associata al cambiamento.

Quando corriamo cambia il nostro ritmo cardiaco, cambia il luogo in cui ci troviamo. Cambia il nostro corpo, cambiano di volta in volta gli obiettivi che ci prefissiamo.
Ecco. La corsa è la traduzione fisica dell’immagine di un andare velocemente verso un cambiamento. Ma non un cambiamento qualsiasi: il cambiamento verso cui si corre, ha in sé l’idea, lo scopo della nostra evoluzione. Mi muovo, sudo, faccio fatica, vado anche controcorrente, ma solo perché dopo migliorerò e con me migliorerà quel “pezzo di mondo” che sta intorno a me.

Non è, quindi, un caso che i musicisti esprimano questo legame, indissolubile, imprescindibile tra il cambiamento e il motivo, l’evolverci in meglio, che verso di esso, necessariamente ci spinge.
Penso ai rocker, che la rottura con la tradizione e le abitudini l’hanno nella loro natura, nel concetto stesso della loro musica. Me ne vengono in mente, in particolare, due. Distanti tra loro per provenienza e stile.

Da un lato, Luciano Ligabue (di cui sono già alla seconda citazione), quando in “Non è tempo per noi”, dice che “andare va bene, però a volte serve un motivo”. Dall’altro, Lenny Kravitz, che nell’album “Baptism”, si è chiesto “Where are we runnin’?”, cioè dove stiamo correndo e, senza tanti mezzi termini, ha dipinto la frenesia di certe corse in cui tutti quanti siamo immersi e ben poco hanno a che fare con il nostro miglioramento: “Where are we runnin’? We need some time to clear our head. Where are we runnin’? Keep on working ‘till we’re dead.”… Si chiede, cioè, dove mai stiamo correndo? Già, abbiamo bisogno di tempo per fare pulizia nella nostra testa, nel nostro pensiero. Dove mai staremo correndo? Continuando, imperterriti, a lavorare fino a quando non saremo morti.

Mi vengono in mente queste parole ogni volta che sento quanti in Italia sostengono le ragioni del “SI’” per il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Saremo, infatti, chiamati a confermare (votando “SI’”) oppure a bloccare (votando “NO”) la riforma della Costituzione proposta dall’attuale Governo e chi parteggia per la prima di queste scelte lo fa dicendo che è votare sì è opportuno per cambiare questo paese, superarne immobilismo ed la rigidità istituzionale che, parrebbero in quest’ottica i peggiori mali del paese dal Dopoguerra in avanti.

Fantastico, no?

No, in effetti.

Il cambiamento di cui sono pieni i discorsi di quanti sostengono il “SI’”, a ben guardare, non sottintende quell’evoluzione che diventa spinta della corsa, della fatica del superamento dei propri limiti. Ma piuttosto la corsa frenetica, senza scopo, senza la prospettiva di raggiungere una situazione migliorativa per il più largo numero di persone possibile che nel testo di Ligabue viene temuta e che echeggia nel testo di Lenny Kravitz. Sottintende un cambiamento che viene dato per buono di per sé. Ma che così buono non si rivela, appena si va di poco oltre l’eloquenza di chi lo propugna.

Leggendo, infatti, il testo della riforma il primo dato che salterà all’occhio anche ci chi non sia giurista più o meno esperto, è l’estrema complessità di lettura del nuovo testo rispetto a quello vigente.
Eppure i sostenitori del “SI’” dicono che la riforma ha proprio lo scopo di cambiare semplificando le istituzioni.

Purtroppo, però, anche passando dal piano della forma  a quello della sostanza, questo intento semplificativo continua a non trovare alcuna dimostrazione. Dagli attuali tre modi di produrre le leggi (legge ordinaria, decreto legge e decreto legislativo delegato), si passa, di fatto, ad una decina di modi diversi per realizzare questo risultato.

Allora forse la semplificazione sta nel fatto di avere eliminato il passaggio al Senato, così da non avere due camere che fanno le stesse cose? Non è tanto vera neppure questa affermazione. Ci saranno dei casi in cui il Senato (ah!, dimenticavo: non viene abolito, solo non avremo più alcuna certezza di votarlo direttamente perché forse i Consigli Regionali dovranno eleggerlo in conformità alle nostre preferenze per quella elezione, sempre che si capisca che cosa questa parte del nuovo testo voglia dire) si dovrà pronunciare su atti legislativi. Quindi appaiono inevitabili i conflitti di attribuzione con la Camera.
E quindi se (utilizzo di nuovo la forma dubitativa), forse, la nuova suddivisione di competenze tra Stato e Regioni porterà (ipotizziamo, pure, ottimisticamente che avvenga)ad una riduzione dei relativi conflitti di attribuzione innanzi alla Corte Costituzionale, aumenteranno quelli di attribuzione tra Camera e Senato.

Dunque la semplificazione migliorativa tanto decantata non c’è? 

No. 

Ed anzi…parrebbe di capire (ma anche qui, bisogna allargare lo sguardo alla lettura combinata del nuovo testo della Costituzione con la legge elettorale, anch’essa parte integrante dell’assetto istituzionale dello Stato) che si sia semplificato, giocando al ribasso, solo sui contrappesi ed i limiti tra i vari poteri dello Stato. Già perché, se mai la “nuova” Costituzione dovesse essere confermata, come suo retroterra, troverebbe una legge elettorale che mantiene i capilista bloccati (come oggi, scelti dai partiti e non dagli elettori) ed uno spropositato premio di maggioranza (il partito che prende pochi più voti degli altri avrà sempre, comunque, incontrovertibilmente la maggioranza dei voti in aula) e che quindi consente di avere un parlamento con un partito unico della Nazione. Questa Camera dei Deputati, oltre a ricordare il Parlamento fascista, sarà l’unica che, senza contrappeso alcuno, darà la fiducia al Presidente del consiglio dei Ministri, che, d’altro canto, potrà dettare l’agenda della discussione in aula.

Quindi la stessa aula, monocolore, che gli ha dato la fiducia e, stando dalla sua parte, opererà solo e sempre come il Presidente del Consiglio impone?
Ebbene, sì.

L’ho detto all’inizio e lo ribadisco. Non c’è sensazione più bella del correre, sudare, faticare per cambiarsi e determinare la propria evoluzione. Ma non ogni cambiamento è evoluzione. Non è evoluzione quel cambiamento che limita la partecipazione di tutti alla vita civile e politica, che consente la supremazia del partito unico e dell’uomo solo al comando.
Lo abbiamo già vissuto e superato nella storia del Paese. Quindi tutto è, tranne evoluzione.        

Per questo, la mia evoluzione, il dicembre, sarà mettere scarpe comode, correre ai seggi e, tessera elettorale alla mano, votare “NO”, così migliorando la consapevolezza di quanto per me siano importanti le garanzie della partecipazione democratica alla vita della società in cui vivo.

Ps: era da tempo che non tornavo sul sentiero del viaggio che ho iniziato, ormai quasi un anno fa, con questo blog. Condividere delle riflessioni sul referendum per cui tra un paio di settimane saremo chiamati a pronunciarci mi pareva un'ottima occasione per riprendere il cammino...

Buon viaggio e ad maiora!

Caselette (TO), 24/11/2016

Vero Ve


lunedì 2 maggio 2016

Milano, la città che corre

Negli ultimi mesi mi è capitato di recarmi spesso a Milano. L’ho fatto con lo spirito della ragazzina in gita, con gli occhi aperti a fotografare tutto ciò che la città sarebbe stata in grado di mostrarmi, sospendendo il giudizio.

Se la prima impressione è quella che conta, la mia è stata di spaesamento e frenesia, alla vista della Stazione Centrale, così grande e così densa di architetture, pubblicità giganti e gente da tutte le parti. Uscita dalla stazione, mi sono diretta verso i Bastioni di Porta Venezia, cercando di lasciarmi cullare dal susseguirsi delle vie, dei larghi e delle piazze. Davanti ai miei occhi, una città attiva, che ti dà la sensazione di poter fare e trovare di tutto nel giro di pochi metri.

Ed in quei pochi metri, è ricomparso davanti ai miei occhi anche il verde, che avevo lasciato alle spalle partendo dalle miei Valli, dei giardini Indro Montanelli. In quel verde, numerosissimi runners.  Sentendo di aver trovato “i miei simili”, ho prestato di volta in volta attenzione sempre maggiore a quella coloratissima comunità. Una comunità che a Milano, a differenza di altre città in cui chi corre viene guardato con un misto di ammirazione e sospetto,  sembra sentirsi davvero a casa. E man mano che i miei viaggi all’ombra della Madonnina continuavano credo di averne compreso il perché.

I parchi cittadini non mancano e soprattutto non mancano le iniziative, le gare, i ritrovi per essere invogliati a scendere dal divano, mettersi le scarpette ed iniziare la magica avventura della corsa.
Non so se la passione per il running che si respira a Milano sia solamente una sorta di metafora di una frenesia generale o sia, invece, il segno che in città si sperimenta uno stile di vita nuovo, che vuole riservare allo sport un ruolo altrettanto fondamentale quanto quello delle altre attività.

Mi piace pensare, però, che la spiegazione corretta sia la seconda. Il che, tra il resto, aiuterebbe a rendere un po’ meno grigia e pesante quella nebbia che invece, spesso, la Madonnina la offusca.

Buon viaggio e ad maiora!

Torino, 2/5/2016


Vero Ve


domenica 20 marzo 2016

Il paradosso della medicina occidentale

Capita a molti: il malanno di stagione. O meglio, di fine stagione, quando le temperature sono ballerine ed il corpo non capisce mai bene se reagire come si trovasse ai Poli o ai Tropici. Presi dall’ansia di guarire presto per tornare quanto prima alle nostre occupazioni, ci rivolgiamo al medico paese, così rassicurante e al tempo stesso così autorevole.
Le diagnosi – credo – si possono riassumere così: una qualche patologia più o meno acuta delle vie aeree. Le prognosi, anch’esse abbastanza prevedibili: da tre a cinque giorni di anti-infiammatorio o, per quelli messi peggio, antibiotico o cortisonico.
Viene naturale fidarsi incondizionatamente di ciò che il nostro medico ci dice. E certamente facciamo bene: non si sostituisce una Laurea con qualche nozione improvvisata o col nostro solo buon senso. Seguendo le sue indicazioni, infatti, in pochi giorni torniamo alla nostra quotidianità.
Fino, ovviamente, al prossimo malanno.
Ed allora, per conoscere il seguito, basta tornare alla prima riga e rileggere.

Eppure – quelli che in fondo sono un po’ ribelli mi capiranno – il dubbio che questa faccenda della malattia del corpo che ciclicamente torna a tormentarci si possa vedere sotto un’altra prospettiva c’è. D’altra parte gli antichi Greci, che la sapevano lunga, con il termine fàrmakon, passato praticamente invariato nell’italiano “farmaco”, indicavano sia il “rimedio, la cura” che “la droga, il veleno”. Ed allora perché non provare a cercare una soluzione a ciò che turba l’equilibrio del nostro corpo al di fuori della semplice assunzione di un certo preparato chimico?

Iniziamo, dunque, la nostra ricerca, usando internet, i libri (sì, quelli di carta, esistono ancora), le riviste ed il confronto con l’esperienza di chi ha avuto la medesima curiosità prima di noi.
Scopriamo, tra il resto, che la medicina ayurvedica collega le patologie dell’apparato respiratorio alle disfunzioni di quello digerente. Succede, infatti, che quando pitta, il fuoco del nostro metabolismo, funziona poco, si accumula kapha, il radicamento a terra, il peso. Questo eccesso impedisce a vata, l’aria, di fluire liberamente. A questo punto, apprendiamo che possono essere preziosi alleati lo zenzero, la curcuma, il pepe nero * ed il movimento – d’altra parte si parla anche di corsa su questa pagina, no? - , alimenti ed azioni che riattivano il nostro fuoco interiore e liberano lo spazio perché l'aria possa circolare al meglio.

Ma non era proprio a questo punto che il medico del nostro paese, di fronte al nostro malanno dei canali respiratori, ci aveva prescritto degli anti-infiammatori? Lo dice il termine stesso, il loro compito è proprio contrastare un qualche “fuoco”. O forse gli antibiotici? Essi, però, hanno l’effetto collaterale di uccidere i batteri della flora del nostro intestino, il che vuol dire mettere in crisi la sede di lavoro di pitta. A qualcuno, infine, è stato prescritto il cortisone? Credo che chiunque ne abbia mai assunto possa ben testimoniare che il primo effetto che si avverte è proprio quell'aumento di peso che invece si vorrebbe scongiurare per favorire il funzionamento delle vie aeree.

Ci troviamo di fronte ad un paradosso: i rimedi che dovevano contrastarne i sintomi, in realtà alimentano e nutrono la causa profonda del nostro malessere. Di nuovo, ci viene in aiuto l’origine greca della definizione della nostra medicina, che si dice “allopatica”: la sua essenza, infatti, consiste nel mettere in campo ciò che è altro (àllos) rispetto alla nostra sofferenza (pàthos). 

Se ci sia soluzione a questo paradosso, non so dire. Neppure so se una delle due strade verso la guarigione sia migliore o comunque più efficace dell’altra. Personalmente, però, non resisto mai alla curiosità di sperimentare come potrebbe essere non seguire la prima soluzione che mi viene prospettata. E poiché il paradosso in cui mi sono imbattuta non è solo un esercizio di logica, ma tocca le corde più profonde del modo che ciascuno di noi ha di vedere il mondo, affido la riflessione conclusiva – che lascio anche a voi - alle parole del grande Tiziano Terzani: “La storia di questo viaggio non è la riprova che non c’è medicina contro certi malanni e che tutto quello che ho fatto per cercarla non è servito a nulla. Al contrario: tutto, compreso il malanno stesso, è servito a tantissimo. E’ così che sono stato spinto a rivedere le mie priorità, a riflettere, a cambiare prospettiva e soprattutto a cambiare vita. E questo è  ciò che posso consigliare ad altri: cambiare vita per curarsi, cambiare vita per curare se stessi” (T. Terzani, “Un altro giro di giostra”, Longanesi & Co., 2004.

Buon viaggio e ad maiora!

Caselette, 20/3/2016

Vero Ve

*riferimento tratto da: Bhagwan Dash, “Rimedi ayurvedici per malattie comuni. Manuale pratico per la cura e la prevenzione di numerose malattie e disturbi”, pag. 42, Edizioni Meditarranee, 1999








martedì 9 febbraio 2016

Un mese...di corsa (se così si può dire...)

Ebbene sì, mi ritrovo a scrivere ad un mese dall'ultimo post.
Tantissimo tempo.
Mi sono trovata a chiedermi come ho impiegato, quindi, il tempo passato a non curarmi del mio buon proposito di esprimere qualcosa di positivo nel mondo, seppur virtuale, del web.
La risposta è arrivata quasi come un flash nella  mia mente: "Sono stata di corsa, troppo di corsa!".
Mi sono messa ad analizzare questa frase, che nel frattempo si era fissata nella mia testa.
Da subito mi è stato chiaro che il senso non era quello letterale. Avrei auspicato fosse così: tra poco arriverà la primavera - penso - stagione di competizioni podistiche, gite e ricognizioni archeologiche ed io mi sento in forma, sì e no, come un bradipo.
"Deve trattarsi di corsa in senso figurato", mi sono detta.
Di nuovo, però, l'immagine ed il significato verso cui il mio pensiero tentava di condurmi non coincidevano. L'idea di corsa evoca in me la figura di uno sforzo che tende ad un obiettivo rispetto al quale le distanze si accorciano. Ciò che mi pareva quanto di più distante da ciò che avrei voluto realmente esprimere.
Poi ho capito.
Ciò che ha caratterizzato il mio agire delle scorse settimane sono stati un'incredibile velocità - questa sì, caratteristica della corsa - nel susseguirsi degli eventi, unita alla sensazione di avere il fiato sempre più corto, preso tra un movimento ed un altro; sensazione, questa, che si sperimenta correndo, quando manca l'allenamento o quando il percorso proprio non risulta entusiasmante. Era mancato, però, l'obiettivo cui tendere.
La risposta giusta alla mia domanda su come avevo impiegato quel tempo, quindi, è diventata: "Sono stata frenetica, troppo frenetica!".
Cosa mi rimane di tutto questo?
La consapevolezza che aver chiaro l'obiettivo è la spinta più grande del nostro avanzare e che le parole vanno usate con cura, perchè non sempre sono davvero fedeli alla realtà che vorrebbero rappresentare.
Riprendo, quindi, il cammino, ora che la direzione è tornata chiara ed i passi hanno nuovo vigore!

Buon viaggio e ad maiora!

Torino, 9/2/2016

Vero Ve







venerdì 8 gennaio 2016

Volevo andare a vedere l’aurora boreale ...ma sono andata a correre sulla Tagliafuoco del Musinè


Pochi giorni fa guardavo il telegiornale, distrattamente. Poi l’ho vista. Bella, grandiosa ed ineffabile come solo lei sa essere: l’aurora boreale. Per pochi secondi – giusto il tempo di un servizio veloce, qualche fotogramma tra la solita sfilata di drammi moderni assortiti – lo schermo si è illuminato di mille sfumature di verde, rosa e azzurro, mostrando la notte del cielo polare nella sua veste più spettacolare.

La distrazione si è fatta attenzione, lo sguardo completamente rapito dai colori. In un attimo, l’immaginazione è corsa lì, in qualche punto indefinito vicino al Polo Nord. Poi un ricordo.

C’è stato un tempo in cui volevo andare a vedere l’aurora boreale. Immaginavo di partire da casa mia in un paesino in provincia di Torino con un camper ed attraversare l’Europa fino alle sue propaggini più estreme. Una volta giunta abbastanza a nord ed allontanatami a sufficienza da qualsiasi abitato, avrei parcheggiato, acceso un fuoco e poi, semplicemente, avrei aspettato l’aurora e me la sarei goduta.  Sarei, poi, ripartita immediatamente per tornare a casa, sazia della bellezza che, ero sicura, quello spettacolo mi avrebbe offerto. Dopo le scorpacciate, si sa, bisogna fare posto…

Avevo, sì e no, tredici anni. Passavo ore a fissare il cielo, di giorno per attribuire alle nuvole le forme più diverse, di sera per ammirare le stelle, nelle orecchie le cuffiette del walkman: erano gli anni in cui la musica non si ascoltava in formato iTunes ed il semplice lettore CD rom portatile sembrava avvenieristico. Non avrei scambiato il binocolo di mio padre e la bici che usavo per lunghissimi giri in campagna con nessun oggetto al mondo. Ogni sguardo portava con sé lo stupore di una prima volta. I concetti di limite e di difficoltà non mi appartenevano: mi sembrava che fosse sufficiente riempirsi gli occhi di bellezza e la testa del desiderio di qualcosa per far sì che accadesse. 
Non ricordo esattamente quando iniziai a sognare di andare a vedere l’aurora boreale. Credo sia iniziato tutto la prima volta che ne ho visto le immagini, su uno dei libri di scuola. Ciò che ricordo nitidamente, invece, sono le sensazioni da cui era nata l’idea di quel viaggio ben oltre i  confini del mio piccolo mondo di ragazzina di provincia: l’entusiasmo, la capacità di provare stupore, la tensione dell’animo verso il bello, la fiducia nella natura. Sempre su un libro, avevo letto che l’aurora boreale altro non è che il frutto dell’interazione di particelle elettricamente cariche che con una certa parte della nostra atmosfera terrestre a certe condizioni. Non era, però, ciò che mi importava. Anzi, mi sembrava che la domanda più interessante da farsi di fronte a quel fenomeno fosse: ma che posto straordinario è il mondo se i suoi meccanismi consentono uno spettacolo simile?

E’ passato qualche anno ed è arrivato il tempo degli impegni, delle scadenze, delle sfide a quei limiti che improvvisamente si scopre di avere. Non solo. E’ arrivato il tempo in cui i colori dell’aurora boreale sono stati ripresi sugli sfondi dei nostri telefonini, diventati scenografia del nostro quotidiano. Il tempo in cui la natura ci sembra ostile anche solo quando in città piove ed i bus sono in ritardo.

Forse, a vedere l’aurora boreale non ci andrò mai - quantomeno, non con un camper scassato ed in solitaria – ma sono contenta di essere riuscita ad intraprendere un altro viaggio: quello verso la riscoperta della natura e del piacere che ne deriva. Perché, sì, gli impegni ci sono, ma poi capita che un’oretta per correre la si trovi. E allora il limite dello sforzo che si riesce a sopportare inizia a venire meno, anche se si tratta di pochi minuti o metri per volta. E succede che quel sentiero su cui si corre, grazie ad un raggio di sole che non si ripeterà mai più uguale, svela angoli mai notati prima.

Si riscopre, in compagnia solo dei propri passi e del proprio respiro, di essere, ancora, capaci di stupirsi.  





domenica 3 gennaio 2016

Aria, acqua, terra e fuoco… Benvenuto 2016!


Quasi per caso abbiamo deciso di festeggiare il Capodanno 2016 in rifugio: niente preoccupazione per la scelta di abiti adeguati all’occasione, nessuna necessità di programmare il tempo al di fuori delle sempre interminabili ore trascorse a tavola, come in ogni festa che si rispetti, solo uno zaino sulle spalle con l’essenziale.

E poiché nella nostra Valle, la Valle di Susa, i sentieri da percorrere e i panorami da scoprire sono moltissimi, è bastato percorrere la statale per qualche paese fino a Beaulard e poi salire ancora in auto poche curve per arrivare a Chateau Beaulard. Ad accoglierci, abbiamo trovato un cartello in legno che ci invitava ad andare piano perchè lì i bambini giocano ancora per strada.

Abbiamo subito capito di essere nel posto giusto: pochi balzi e ci siamo trovati fuori dall’auto e sul sentiero per il rifugio “Guido Rey”. Aria, di quella vera, bella, pulita e piacevole intorno a noi: il respiro man mano più leggero e veloce, il profumo del bosco nelle narici, sopra le nostre teste rami di pini ed abeti ed il cielo ancora azzurro. Appena il tempo di sentire tendersi i muscoli ed i nervi delle gambe, ed ecco una radura. Ed il rifugio. Come sempre quando si arriva ad una meta, la sensazione è quella di aver raggiunto una terra nuova, ma diventata familiare perché la si è agognata durante il cammino. E così, con la terra sotto i piedi, ma sospesi per aria a 1791 m. s.l.m., ci siamo naturalmente girati ad ammirare lo spettacolo della bassa valle avvolta in una nebbia che noi avevamo la fortuna di esserci lasciati alle spalle.

Il tempo di una doccia, l’acqua che scorre sul corpo a lavare via l’ultimo briciolo di città e stress ed eccoci davvero pronti a festeggiare. Il vin brulè, i tavoli in legno, i commensali che prendono posto, tutti lì a condividere, senza esserci mai conosciuti prima, il rituale del passaggio ad un nuovo anno, ciascuno con le proprie speranze, i propri buoni propositi.

E di buoni propositi, a mezzanotte, intorno al fuoco ne ho fatti parecchi. Sarà che il fuoco è il mio elemento; o forse il ricordo di quando, da piccola, mi scaldavo davanti alla brace negli interminabili pomeriggi autunnali in cui la nonna, in campagna, faceva il pane per tutti; o forse, ancora, la sensazione che in fondo le reazioni che produce il fuoco sono quelle basilari della vita e senza di lui non si andrebbe avanti.  Non saprei spiegare il perché, so solo che le idee sono tante e tutte hanno al centro la voglia di essere sempre più libera nei movimenti della corsa e di trovare la forza che serve nella musica, che è ciò che finora non mi ha davvero mai abbandonata.

Passata la notte più lunga dell’anno, il risveglio non poteva essere migliore. Il cielo sereno, la montagna in uno splendore quasi estivo (senza neve, infatti, sembrava di essere alcuni mesi indietro, o avanti, a seconda dei punti di vista) e, soprattutto, una meta in mente: percorrere tutto l’anello del sentiero che collega il “Guido Rey”, San Giusto, Beaulard e Chateau Beaulard.

Ed ecco, di nuovo, uno splendido intrecciarsi di aria, in ogni respiro dal profumo di bosco, terra sotto ogni passo, acqua il più delle volte bellissima e pericolosa perché ghiacciata e, naturalmente il fuoco. Sì, perché la fatica scalda le guance e gli arti e in alcuni punti forse fa pensare di non farcela. Poi però quello stesso  fuoco ti spinge avanti e basta poco: un po’ di curiosità e l’aiuto preziosissimo di chi ti apre la pista, ti sostiene e ti strappa anche un sorriso.  Dimentichi la fatica, superi la roccia, ritrovi il sentiero, vai più in alto e lo scenario che si dischiude davanti ai tuoi occhi è ancora più  bello di quello che ti sei appena lasciato alle spalle.  Allora pensi che forse può essere così anche nella vita e ti fai l’augurio di avere sempre una nuova meta, le gambe e il cuore per superare la fatica e raggiungerla godendoti il panorama.

Tornando sull’automobile e poi scendendo verso la splendida Susa, a salutare le testimonianze della nostra Storia (quella con la “S” maiuscola, lasciate dai Romani e poi dagli uomini del Medioevo), ho pensato che quelle sensazioni provate nei boschi me le voglio portare dietro tutto l’anno. In fondo, aria, acqua, terra e fuoco sono anche dentro ognuno di noi…

Buon viaggio e ad maiora!

Caselette, 3/1/2016


Vero Ve