Pochi giorni fa guardavo il telegiornale,
distrattamente. Poi l’ho vista. Bella, grandiosa ed ineffabile come solo lei sa
essere: l’aurora boreale. Per pochi secondi – giusto il tempo di un servizio
veloce, qualche fotogramma tra la solita sfilata di drammi moderni assortiti –
lo schermo si è illuminato di mille sfumature di verde, rosa e azzurro,
mostrando la notte del cielo polare nella sua veste più spettacolare.
La distrazione si è fatta attenzione,
lo sguardo completamente rapito dai colori. In un attimo, l’immaginazione è
corsa lì, in qualche punto indefinito vicino al Polo Nord. Poi un ricordo.
C’è stato un tempo in cui volevo
andare a vedere l’aurora boreale. Immaginavo di partire da casa mia in un paesino
in provincia di Torino con un camper ed attraversare l’Europa fino alle sue
propaggini più estreme. Una volta giunta abbastanza a nord ed allontanatami a
sufficienza da qualsiasi abitato, avrei parcheggiato, acceso un fuoco e poi,
semplicemente, avrei aspettato l’aurora e me la sarei goduta. Sarei, poi, ripartita immediatamente per
tornare a casa, sazia della bellezza che, ero sicura, quello spettacolo mi
avrebbe offerto. Dopo le scorpacciate, si sa, bisogna fare posto…
Avevo, sì e no, tredici anni. Passavo
ore a fissare il cielo, di giorno per attribuire alle nuvole le forme più
diverse, di sera per ammirare le stelle, nelle orecchie le cuffiette del
walkman: erano gli anni in cui la musica non si ascoltava in formato iTunes ed il
semplice lettore CD rom portatile sembrava avvenieristico. Non avrei scambiato
il binocolo di mio padre e la bici che usavo per lunghissimi giri in campagna
con nessun oggetto al mondo. Ogni sguardo portava con sé lo stupore di una prima
volta. I concetti di limite e di difficoltà non mi appartenevano: mi sembrava
che fosse sufficiente riempirsi gli occhi di bellezza e la testa del desiderio
di qualcosa per far sì che accadesse.
Non ricordo esattamente quando iniziai a
sognare di andare a vedere l’aurora boreale. Credo sia iniziato tutto la prima
volta che ne ho visto le immagini, su uno dei libri di scuola. Ciò che ricordo
nitidamente, invece, sono le sensazioni da cui era nata l’idea di quel viaggio ben oltre i
confini del mio piccolo mondo di ragazzina di provincia: l’entusiasmo,
la capacità di provare stupore, la tensione dell’animo verso il bello, la
fiducia nella natura. Sempre su un libro, avevo letto che l’aurora boreale
altro non è che il frutto dell’interazione di particelle elettricamente cariche
che con una certa parte della nostra atmosfera terrestre a certe condizioni.
Non era, però, ciò che mi importava. Anzi, mi sembrava che la domanda più
interessante da farsi di fronte a quel fenomeno fosse: ma che posto
straordinario è il mondo se i suoi meccanismi consentono uno spettacolo simile?
E’ passato qualche anno ed è
arrivato il tempo degli impegni, delle scadenze, delle sfide a quei limiti che
improvvisamente si scopre di avere. Non solo. E’ arrivato il tempo in cui i
colori dell’aurora boreale sono stati ripresi sugli sfondi dei nostri telefonini, diventati scenografia del nostro quotidiano. Il tempo in cui la natura ci sembra ostile
anche solo quando in città piove ed i bus sono in ritardo.
Forse, a vedere l’aurora boreale
non ci andrò mai - quantomeno, non con un camper scassato ed in solitaria – ma sono
contenta di essere riuscita ad intraprendere un altro viaggio: quello verso la
riscoperta della natura e del piacere che ne deriva. Perché, sì, gli impegni ci
sono, ma poi capita che un’oretta per correre la si trovi. E allora il limite
dello sforzo che si riesce a sopportare inizia a venire meno, anche se si tratta
di pochi minuti o metri per volta. E succede che quel sentiero su cui si corre, grazie ad un raggio di sole che non si ripeterà mai più uguale, svela
angoli mai notati prima.
Si riscopre, in compagnia solo dei propri passi e del proprio respiro, di essere, ancora, capaci di stupirsi.
Si riscopre, in compagnia solo dei propri passi e del proprio respiro, di essere, ancora, capaci di stupirsi.