giovedì 24 novembre 2016

Where are we runnin'? (ovvero, Di Lenny Kravitz e del Referendum costituzionale)

Accade spesso che la corsa sia associata al cambiamento.

Quando corriamo cambia il nostro ritmo cardiaco, cambia il luogo in cui ci troviamo. Cambia il nostro corpo, cambiano di volta in volta gli obiettivi che ci prefissiamo.
Ecco. La corsa è la traduzione fisica dell’immagine di un andare velocemente verso un cambiamento. Ma non un cambiamento qualsiasi: il cambiamento verso cui si corre, ha in sé l’idea, lo scopo della nostra evoluzione. Mi muovo, sudo, faccio fatica, vado anche controcorrente, ma solo perché dopo migliorerò e con me migliorerà quel “pezzo di mondo” che sta intorno a me.

Non è, quindi, un caso che i musicisti esprimano questo legame, indissolubile, imprescindibile tra il cambiamento e il motivo, l’evolverci in meglio, che verso di esso, necessariamente ci spinge.
Penso ai rocker, che la rottura con la tradizione e le abitudini l’hanno nella loro natura, nel concetto stesso della loro musica. Me ne vengono in mente, in particolare, due. Distanti tra loro per provenienza e stile.

Da un lato, Luciano Ligabue (di cui sono già alla seconda citazione), quando in “Non è tempo per noi”, dice che “andare va bene, però a volte serve un motivo”. Dall’altro, Lenny Kravitz, che nell’album “Baptism”, si è chiesto “Where are we runnin’?”, cioè dove stiamo correndo e, senza tanti mezzi termini, ha dipinto la frenesia di certe corse in cui tutti quanti siamo immersi e ben poco hanno a che fare con il nostro miglioramento: “Where are we runnin’? We need some time to clear our head. Where are we runnin’? Keep on working ‘till we’re dead.”… Si chiede, cioè, dove mai stiamo correndo? Già, abbiamo bisogno di tempo per fare pulizia nella nostra testa, nel nostro pensiero. Dove mai staremo correndo? Continuando, imperterriti, a lavorare fino a quando non saremo morti.

Mi vengono in mente queste parole ogni volta che sento quanti in Italia sostengono le ragioni del “SI’” per il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Saremo, infatti, chiamati a confermare (votando “SI’”) oppure a bloccare (votando “NO”) la riforma della Costituzione proposta dall’attuale Governo e chi parteggia per la prima di queste scelte lo fa dicendo che è votare sì è opportuno per cambiare questo paese, superarne immobilismo ed la rigidità istituzionale che, parrebbero in quest’ottica i peggiori mali del paese dal Dopoguerra in avanti.

Fantastico, no?

No, in effetti.

Il cambiamento di cui sono pieni i discorsi di quanti sostengono il “SI’”, a ben guardare, non sottintende quell’evoluzione che diventa spinta della corsa, della fatica del superamento dei propri limiti. Ma piuttosto la corsa frenetica, senza scopo, senza la prospettiva di raggiungere una situazione migliorativa per il più largo numero di persone possibile che nel testo di Ligabue viene temuta e che echeggia nel testo di Lenny Kravitz. Sottintende un cambiamento che viene dato per buono di per sé. Ma che così buono non si rivela, appena si va di poco oltre l’eloquenza di chi lo propugna.

Leggendo, infatti, il testo della riforma il primo dato che salterà all’occhio anche ci chi non sia giurista più o meno esperto, è l’estrema complessità di lettura del nuovo testo rispetto a quello vigente.
Eppure i sostenitori del “SI’” dicono che la riforma ha proprio lo scopo di cambiare semplificando le istituzioni.

Purtroppo, però, anche passando dal piano della forma  a quello della sostanza, questo intento semplificativo continua a non trovare alcuna dimostrazione. Dagli attuali tre modi di produrre le leggi (legge ordinaria, decreto legge e decreto legislativo delegato), si passa, di fatto, ad una decina di modi diversi per realizzare questo risultato.

Allora forse la semplificazione sta nel fatto di avere eliminato il passaggio al Senato, così da non avere due camere che fanno le stesse cose? Non è tanto vera neppure questa affermazione. Ci saranno dei casi in cui il Senato (ah!, dimenticavo: non viene abolito, solo non avremo più alcuna certezza di votarlo direttamente perché forse i Consigli Regionali dovranno eleggerlo in conformità alle nostre preferenze per quella elezione, sempre che si capisca che cosa questa parte del nuovo testo voglia dire) si dovrà pronunciare su atti legislativi. Quindi appaiono inevitabili i conflitti di attribuzione con la Camera.
E quindi se (utilizzo di nuovo la forma dubitativa), forse, la nuova suddivisione di competenze tra Stato e Regioni porterà (ipotizziamo, pure, ottimisticamente che avvenga)ad una riduzione dei relativi conflitti di attribuzione innanzi alla Corte Costituzionale, aumenteranno quelli di attribuzione tra Camera e Senato.

Dunque la semplificazione migliorativa tanto decantata non c’è? 

No. 

Ed anzi…parrebbe di capire (ma anche qui, bisogna allargare lo sguardo alla lettura combinata del nuovo testo della Costituzione con la legge elettorale, anch’essa parte integrante dell’assetto istituzionale dello Stato) che si sia semplificato, giocando al ribasso, solo sui contrappesi ed i limiti tra i vari poteri dello Stato. Già perché, se mai la “nuova” Costituzione dovesse essere confermata, come suo retroterra, troverebbe una legge elettorale che mantiene i capilista bloccati (come oggi, scelti dai partiti e non dagli elettori) ed uno spropositato premio di maggioranza (il partito che prende pochi più voti degli altri avrà sempre, comunque, incontrovertibilmente la maggioranza dei voti in aula) e che quindi consente di avere un parlamento con un partito unico della Nazione. Questa Camera dei Deputati, oltre a ricordare il Parlamento fascista, sarà l’unica che, senza contrappeso alcuno, darà la fiducia al Presidente del consiglio dei Ministri, che, d’altro canto, potrà dettare l’agenda della discussione in aula.

Quindi la stessa aula, monocolore, che gli ha dato la fiducia e, stando dalla sua parte, opererà solo e sempre come il Presidente del Consiglio impone?
Ebbene, sì.

L’ho detto all’inizio e lo ribadisco. Non c’è sensazione più bella del correre, sudare, faticare per cambiarsi e determinare la propria evoluzione. Ma non ogni cambiamento è evoluzione. Non è evoluzione quel cambiamento che limita la partecipazione di tutti alla vita civile e politica, che consente la supremazia del partito unico e dell’uomo solo al comando.
Lo abbiamo già vissuto e superato nella storia del Paese. Quindi tutto è, tranne evoluzione.        

Per questo, la mia evoluzione, il dicembre, sarà mettere scarpe comode, correre ai seggi e, tessera elettorale alla mano, votare “NO”, così migliorando la consapevolezza di quanto per me siano importanti le garanzie della partecipazione democratica alla vita della società in cui vivo.

Ps: era da tempo che non tornavo sul sentiero del viaggio che ho iniziato, ormai quasi un anno fa, con questo blog. Condividere delle riflessioni sul referendum per cui tra un paio di settimane saremo chiamati a pronunciarci mi pareva un'ottima occasione per riprendere il cammino...

Buon viaggio e ad maiora!

Caselette (TO), 24/11/2016

Vero Ve


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