Accade spesso che la corsa sia
associata al cambiamento.
Quando corriamo cambia il nostro
ritmo cardiaco, cambia il luogo in cui ci troviamo. Cambia il nostro corpo,
cambiano di volta in volta gli obiettivi che ci prefissiamo.
Ecco. La corsa è la traduzione
fisica dell’immagine di un andare velocemente verso un cambiamento. Ma non un
cambiamento qualsiasi: il cambiamento verso cui si corre, ha in sé l’idea, lo
scopo della nostra evoluzione. Mi muovo, sudo, faccio fatica, vado anche
controcorrente, ma solo perché dopo migliorerò e con me migliorerà quel “pezzo
di mondo” che sta intorno a me.
Non è, quindi, un caso che i
musicisti esprimano questo legame, indissolubile, imprescindibile tra il
cambiamento e il motivo, l’evolverci in meglio, che verso di esso,
necessariamente ci spinge.
Penso ai rocker, che la rottura
con la tradizione e le abitudini l’hanno nella loro natura, nel concetto stesso
della loro musica. Me ne vengono in mente, in particolare, due. Distanti tra
loro per provenienza e stile.
Da un lato, Luciano Ligabue (di
cui sono già alla seconda citazione), quando in “Non è tempo per noi”, dice che
“andare va bene, però a volte serve un motivo”. Dall’altro, Lenny Kravitz, che
nell’album “Baptism”, si è chiesto “Where are we runnin’?”, cioè dove stiamo
correndo e, senza tanti mezzi termini, ha dipinto la frenesia di certe corse in
cui tutti quanti siamo immersi e ben poco hanno a che fare con il nostro
miglioramento: “Where are we runnin’? We need some time to clear our head. Where are we runnin’? Keep on
working ‘till we’re dead.”… Si chiede, cioè, dove mai stiamo correndo? Già,
abbiamo bisogno di tempo per fare pulizia nella nostra testa, nel nostro
pensiero. Dove mai staremo correndo? Continuando, imperterriti, a lavorare fino
a quando non saremo morti.
Mi vengono in mente queste parole
ogni volta che sento quanti in Italia sostengono le ragioni del “SI’” per il
referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Saremo, infatti, chiamati a
confermare (votando “SI’”) oppure a bloccare (votando “NO”) la riforma della
Costituzione proposta dall’attuale Governo e chi parteggia per la prima di
queste scelte lo fa dicendo che è votare sì è opportuno per cambiare questo
paese, superarne immobilismo ed la rigidità istituzionale che, parrebbero in
quest’ottica i peggiori mali del paese dal Dopoguerra in avanti.
Fantastico, no?
No, in effetti.
Il cambiamento di cui sono pieni
i discorsi di quanti sostengono il “SI’”, a ben guardare, non sottintende
quell’evoluzione che diventa spinta della corsa, della fatica del superamento
dei propri limiti. Ma piuttosto la corsa frenetica, senza scopo, senza la
prospettiva di raggiungere una situazione migliorativa per il più largo numero
di persone possibile che nel testo di Ligabue viene temuta e che echeggia nel
testo di Lenny Kravitz. Sottintende un cambiamento che viene dato per buono di
per sé. Ma che così buono non si rivela, appena si va di poco oltre l’eloquenza
di chi lo propugna.
Leggendo, infatti, il testo della
riforma il primo dato che salterà all’occhio anche ci chi non sia giurista più
o meno esperto, è l’estrema complessità di lettura del nuovo testo rispetto a
quello vigente.
Eppure i sostenitori del “SI’”
dicono che la riforma ha proprio lo scopo di cambiare semplificando le istituzioni.
Purtroppo, però, anche passando
dal piano della forma a quello della
sostanza, questo intento semplificativo continua a non trovare alcuna
dimostrazione. Dagli attuali tre modi di produrre le leggi (legge ordinaria,
decreto legge e decreto legislativo delegato), si passa, di fatto, ad una
decina di modi diversi per realizzare questo risultato.
Allora forse la semplificazione
sta nel fatto di avere eliminato il passaggio al Senato, così da non avere due
camere che fanno le stesse cose? Non è tanto vera neppure questa affermazione.
Ci saranno dei casi in cui il Senato (ah!, dimenticavo: non viene abolito, solo
non avremo più alcuna certezza di votarlo direttamente perché forse i Consigli
Regionali dovranno eleggerlo in conformità alle nostre preferenze per quella
elezione, sempre che si capisca che cosa questa parte del nuovo testo voglia
dire) si dovrà pronunciare su atti legislativi. Quindi appaiono inevitabili i
conflitti di attribuzione con la Camera.
E quindi se (utilizzo di nuovo la
forma dubitativa), forse, la nuova suddivisione di competenze tra Stato e
Regioni porterà (ipotizziamo, pure, ottimisticamente che avvenga)ad una
riduzione dei relativi conflitti di attribuzione innanzi alla Corte
Costituzionale, aumenteranno quelli di attribuzione tra Camera e Senato.
Dunque la semplificazione
migliorativa tanto decantata non c’è?
No.
Ed anzi…parrebbe di capire (ma anche
qui, bisogna allargare lo sguardo alla lettura combinata del nuovo testo della
Costituzione con la legge elettorale, anch’essa parte integrante dell’assetto
istituzionale dello Stato) che si sia semplificato, giocando al ribasso, solo
sui contrappesi ed i limiti tra i vari poteri dello Stato. Già perché, se mai
la “nuova” Costituzione dovesse essere confermata, come suo retroterra,
troverebbe una legge elettorale che mantiene i capilista bloccati (come oggi,
scelti dai partiti e non dagli elettori) ed uno spropositato premio di
maggioranza (il partito che prende pochi più voti degli altri avrà sempre,
comunque, incontrovertibilmente la maggioranza dei voti in aula) e che quindi
consente di avere un parlamento con un partito unico della Nazione. Questa
Camera dei Deputati, oltre a ricordare il Parlamento fascista, sarà l’unica che,
senza contrappeso alcuno, darà la fiducia al Presidente del consiglio dei
Ministri, che, d’altro canto, potrà dettare l’agenda della discussione in aula.
Quindi la stessa aula, monocolore,
che gli ha dato la fiducia e, stando dalla sua parte, opererà solo e sempre
come il Presidente del Consiglio impone?
Ebbene, sì.
L’ho detto all’inizio e lo
ribadisco. Non c’è sensazione più bella del correre, sudare, faticare per
cambiarsi e determinare la propria evoluzione. Ma non ogni cambiamento è
evoluzione. Non è evoluzione quel cambiamento che limita la partecipazione di
tutti alla vita civile e politica, che consente la supremazia del partito unico
e dell’uomo solo al comando.
Lo abbiamo già vissuto e superato
nella storia del Paese. Quindi tutto è, tranne evoluzione.
Per questo, la mia evoluzione, il
dicembre, sarà mettere scarpe comode, correre ai seggi e, tessera elettorale
alla mano, votare “NO”, così migliorando la consapevolezza di quanto per me
siano importanti le garanzie della partecipazione democratica alla vita della
società in cui vivo.
Ps: era da tempo che non tornavo sul sentiero del viaggio che ho iniziato, ormai quasi un anno fa, con questo blog. Condividere delle riflessioni sul referendum per cui tra un paio di settimane saremo chiamati a pronunciarci mi pareva un'ottima occasione per riprendere il cammino...
Buon viaggio e ad maiora!
Caselette (TO), 24/11/2016
Vero Ve
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